Nelle traduzioni finanziarie ci si imbatte spesso nel termine inglese challenging, un aggettivo utilizzato per connotare negativamente un contesto politico, economico, un particolare mercato finanziario o un obiettivo difficile da raggiungere.
Negli ultimi tempi il suo uso ricorre con maggiore frequenza dati i recenti sviluppi politici su scala globale, come la Brexit, l’elezione di Trump e la sua politica commerciale, o la minacciosa avanzata del populismo in vista delle elezioni in alcuni dei principali paesi europei, che fanno ipotizzare uno scenario futuro sempre più challenging rendendo la vita difficile agli investitori.
Tradurre l’aggettivo challenging non costituisce affatto una difficoltà, esistono in italiano validi traducenti a seconda del contesto: difficile, problematico, impegnativo, arduo oppure, se inteso in senso positivo, interessante, stimolante, ecc. (Wordreference).
Tuttavia, recentemente sono incappata nel termine sfidante, utilizzato appunto come aggettivo. Ho istintivamente storto il naso: per me uno sfidante è sempre stato colui che lancia una sfida.
Se si lancia una ricerca online per verificare quante volte sfidante ricorra come aggettivo il risultato è sorprendente: per “contesto sfidante” Google fornisce ben 10.100 ricorrenze, presente persino su autorevoli siti come il Corriere o MilanoFinanza.
Poiché mi rendo conto che una lingua si evolve incessantemente e necessariamente – e meno male, viva la vitalità delle lingue! – ho voluto accertarmi che il termine fosse stato acquisito e legittimamente sdoganato come aggettivo anche dalla prestigiosa Accademia della Crusca. Ebbene sì, l’attenta custode della lingua italiana accetta l’uso di sfidante inteso come aggettivo e quasi se ne augura una maggiore diffusione nella sua accezione positiva (Una questione sfidante).
Devo tuttavia constatare che neanche l’approvazione e accoglienza da parte della massima istituzione linguistica italiana riescono ad attenuare il profondo fastidio che provo al solo accostare il termine sfidante a parole come “questione”, “contesto”, “scenario”, ecc.
La ritengo una forzatura, a maggior ragione del fatto che in italiano non mancano congrui corrispettivi. Insomma, se ne sentiva proprio il bisogno?
Non sono una purista della lingua: accolgo con entusiasmo neologismi e termini stranieri che la arricchiscono e rinnovano, ma a volte mi chiedo, come in questo caso, se sia sensato usare un termine personalmente ritenuto “inaccettabile” solo per adeguarsi a una tendenza accreditata, e senza che la novità apporti alcun beneficio supplementare.
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano i colleghi.
L’autrice del contributo
Caterina Cutrupi è una traduttrice specializzata (e appassionata) in ambito legale e finanziario. Vive a Milano dove ha conseguito il diploma di interprete e traduttrice e la laurea in lingue e letterature moderne. Le sue lingue di lavoro sono l’inglese e il francese. Il suo profilo completo è disponibile su www.caterinacutrupi.it