Qualche giorno fa, lavorando a un testo che in verità aveva poco a che fare con la sicurezza in Europa, sono incappata in un riferimento alla recente proposta della Commissione europea di facilitare lo scambio nell’Ue dei casellari giudiziali dei cittadini di paesi terzi. Il testo di partenza, in tedesco, si riferiva ai suddetti «cittadini di paesi terzi» con l’espressione Nicht-EU-Bürger, equivalente all’inglese non-EU citizens. E di fronte ad essa, come sempre, ho titubato.
In italiano un termine per definire colui che proviene da uno stato non appartenente all’Unione europea lo abbiamo: extracomunitario. Di questo vocabolo il Treccani offre la seguente definizione: «Che non fa parte dell’Unione Europea»; e il Garzanti: «si dice di cittadino di un paese non appartenente all’Unione Europea». Sempre il Treccani, però, completa la definizione così: «spec. al plur. masch., gli e., coloro che emigrano da paesi economicamente disagiati (spec. da regioni dell’Africa e dell’Asia) negli stati dell’Unione Europea in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita»; una precisazione che trova eco nel Garzanti: «nell’uso comune, si dice in particolare di cittadino di un paese del terzo o quarto mondo».
Non è, quindi, una semplice questione di sensibilità personale. La parola extracomunitario ha, obiettivamente, una connotazione negativa. E un indiscusso valore inferiorizzante: non si esita a utilizzarla per un albanese, ma non sarebbe certo la prima scelta per riferirsi a uno svizzero.
Un termine spregiativo e discriminatorio, dunque. Sempre e comunque? No.
Come la sua etimologia palesa e ricorda, il termine nasce per indicare una precisa condizione giuridica, e con tale significato – sostanzialmente neutro – lo troviamo usato soprattutto in contesti burocratici e amministrativi, ad esempio sul sito del Ministero dell’Interno o del Ministero della Salute.
Di tutto ciò il traduttore – chiamato a soppesare con attenzione ogni scelta lessicale – deve tenere conto. A seconda della natura del testo da tradurre, delle intenzioni di colui che lo ha redatto, del profilo del lettore cui è destinato e del contesto in cui verrà diffuso, il traduttore dovrà ponderare se sia prudente (perché tecnicamente corretto lo è sempre) impiegare la parola extracomunitario o se sia invece preferibile ricorrere a espressioni alternative quali «cittadino extra UE» (come fa la DG Occupazione, affari sociali e inclusione) o «cittadino di un paese terzo» (come fa la versione italiana dell’articolo che riporta la notizia di cui parlavo all’inizio di questo post).
E voi? Avete mai esitato di fronte a questo termine? Avete mai deciso di evitarne l’uso per non infondere un tono sprezzante a un testo che non aveva l’intenzione di esserlo? Vi invito a condividere le vostre esperienze nei commenti.
L’autrice del contributo
Elisa Farina, nata e cresciuta in Italia, ha trascorso gli anni della prima adolescenza in Germania. Tredici anni più tardi si è stabilita in Spagna, dove vive tuttora e lavora come traduttrice dal tedesco, inglese, spagnolo e francese verso l’italiano. Per info: www.elisa-farina.com