Come forse ricorderete, in un post di qualche settimana fa ho portato ad esempio un articolo di Rassegna Sindacale per mettere in luce l’inesistenza – attuale e non necessariamente definitiva – di una traduzione italiana del termine crowd work. Chi di voi ha seguito il link e ha letto la pubblicazione per intero avrà notato che il testo usa anche un’altra parolona inglese potenzialmente oscura per il lettore italiano, anzi due: sharing economy.
Come spiega Investopedia, per sharing economy si intende “an economic model in which individuals are able to borrow or rent assets owned by someone else”. È un modello economico che si concretizza in realtà note a noi tutti, come Airbnb e Uber, e che, per citare il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, si caratterizza per precisi tratti distintivi:
- Il primo è la condivisione, l’utilizzo comune di una risorsa, intesa come profilo distinto dalle forme tradizionali di reciprocità, redistribuzione e scambio.
- Il secondo è legato alla relazione orizzontale (peer-to-peer) tra soggetti di pari dignità che si scambiano beni e servizi basandosi su reciproche promesse.
- Il terzo è la presenza di una piattaforma tecnologica, sotto forma di siti internet o app mobile, che supporta e rende possibili le relazioni digitali.
Un concetto preciso e dai contorni ben delineati, dunque?
No. Il concetto di sharing economy manca di una definizione chiara e condivisa. Non solo, manca di una denominazione unica e costante. Anche in inglese. Come messo in luce da Rachel Botsman, esperta in materia e autrice di numerosi e interessanti articoli sul tema, per il modello in questione si usa comunemente un quartetto di termini: sharing economy, peer economy, collaborative economy e collaborative consumption. E in italiano? Se ne impiegano anche di più, perché oltre alle formule economia della condivisione, economia collaborativa, economia condivisa e consumo condiviso, si fa spesso ricorso anche al forestierismo sharing economy e all’espressione mista economia peer-to-peer. Lo abbiamo visto fare dalla Cgil nell’articolo che citavo all’inizio del post e ritroviamo la stessa scelta nell’indagine di Collaboriamo.org e Phd Media intitolata, appunto, “Sharing Economy: la mappatura delle piattaforme italiane 2014”.
Come dovrebbe comportarsi, dunque, chi scrive e traduce materiale sul tema? Personalmente, credo che per il momento non ci sia alternativa a propendere, di volta in volta, per un termine anziché un altro in funzione del contesto. Informandosi a dovere, si scoprirà ad esempio che il Comitato europeo delle regioni si orienta per “economia della condivisione” mentre la Commissione europea preferisce “economia collaborativa” e che questa stessa forma è prediletta dagli organizzatori dell’evento Sharitaly. Sarà il tempo a dire quale di queste formulazioni avrà la meglio, prevalendo nell’uso per effetto della presa di posizione delle istituzioni, dell’utilizzo ripetuto da parte dei media e via dicendo.
E voi? Avete già una preferenza? Se sì, come la motivate? Scrivetelo nei commenti!
L’autrice del contributo
Elisa Farina, nata e cresciuta in Italia, ha trascorso gli anni della prima adolescenza in Germania. Tredici anni più tardi si è stabilita in Spagna, dove vive tuttora e lavora come traduttrice dal tedesco, inglese, spagnolo e francese verso l’italiano. Per info: www.elisa-farina.com